Cécile Batillat – L’arte come rivelazione dell’invisibile

Pubblicato il 27 ottobre 2025 alle ore 20:00

Tra memoria, verità e presenza: il linguaggio poetico e spirituale di un’artista che trasforma la pittura in contemplazione.

 

Artista e filosofa dell’immagine, Cécile Batillat rappresenta una delle voci più intense dell’arte contemporanea francese. Formata alla Sorbonne in Arti Plastiche, Video e Nuove Tecnologie, ha attraversato teatro, cinema e insegnamento prima di tornare alla pittura e al disegno, i suoi linguaggi più autentici.
Nelle sue opere convivono la riflessione filosofica e l’esperienza mistica, il rigore del pensiero e la leggerezza del simbolo. Cécile non dipinge per rappresentare, ma per rivelare — per portare alla luce ciò che non si vede, ciò che vibra tra memoria e spirito.

 

Quando le chiedo cosa l’abbia riportata definitivamente alla pittura, Cécile risponde con una parola: “l’icona”.
Da più di undici anni pratica la scrittura delle icone come un atto di meditazione e presenza. «Nell’icona ho sperimentato il soffio interiore che si posa sulla tavola e sale alla luce. È una liturgia incantatrice, un Kyrie Eleïson», racconta.
In questo gesto rituale e sacro trova la stessa tensione spirituale che anima le sue opere: un incontro tra Oriente e Occidente, tra la prospettiva dell’icona e la pittura giapponese Sumi-e, entrambe forme di rappresentazione dell’interiorità più che della realtà esterna.

 

 

L’universo di Cécile si nutre di fiabe e miti, che considera «chiavi simboliche universali» per comprendere la natura umana.
«Le fiabe — spiega — non sono storie per bambini, ma la nostra memoria collettiva. Racchiudono angosce, desideri, speranze. Sono schemi su cui si fonda ogni leggenda personale».
Nel suo lavoro, questi racconti arcaici diventano architetture di significato: catarsi, rivelazione e specchio dell’anima.

 

Parlando di filosofia, Cécile distingue con chiarezza tra Verità e Realtà.
«L’arte svela la Verità — dice — quella parte essenziale e universale che la realtà visibile non mostra. Il sublime è l’ineffabile: ciò che affascina lo sguardo e tocca il cuore delle cose».
Nei suoi lavori, la pittura non imita il mondo, ma lo supera. È un varco verso ciò che non si può dire, un modo per accedere all’essenza dell’essere.

 

 

La memoria è uno dei temi centrali del suo percorso. Nelle serie Da Capo Salva (I) e (II) — esposte in Germania, Ucraina e presso il Museum of the Americas di Houston — l’artista riflette sul dovere di custodire la memoria come forma di resistenza.
«Salvare la memoria significa salvare la propria identità. Senza pensiero, l’uomo si lascia manipolare. La memoria ci radica, definisce chi siamo e crea legame sociale. La morte più dolorosa è quella dell’oblio.»
Le sue opere diventano così strumenti di consapevolezza, ponti tra generazioni e testimonianze contro ogni forma di cancellazione e violenza.

 

Per Cécile Batillat, l’arte non diventa resistenza: è resistenza.
È un atto di rifiuto della superficialità, una ribellione silenziosa contro il disumano. «Anche quando copia la realtà — spiega — l’arte ne denuncia la menzogna. È sempre stata una forma di protesta, di uscita da sé, una catarsi.»
Racconta di essere rimasta colpita da un’opera vista in Ucraina, Où est l’âme? di Volodymyr Semkiv, in cui un corpo senza testa evocava la perdita dello spirito. «Mi ha ricordato le mie opere Da Capo Salva: salvare la testa significa salvare il pensiero, la nostra identità.»

 

Nei suoi lavori, i simboli nascono dai miti, dalle leggende, dalle parole. Sono segni che collegano visibile e invisibile, corpo e spirito.
«Il simbolo è un codice da decifrare», spiega. «Mi piace introdurre gli haiku nell’immagine: come nella scrittura cinese, il tratto diventa ponte tra uomo, cosmo ed emozione.»
Nelle sue opere pittoriche il gesto è respiro, la linea è pensiero, la materia è vita.

Esposta in Europa, Stati Uniti, America Latina e India, Cécile Batillat ha trovato in ogni cultura un punto di incontro: l’emozione.
«L’emozione è universale e diretta, in Oriente come in Occidente. L’espressione dell’anima non ha lingua: il linguaggio visivo la rende condivisa.»
Le sue opere, frontali e magnetiche, instaurano un dialogo con lo spettatore, invitandolo a riconoscersi nello sguardo dell’altro. «L’opera è un incontro. Quando tocca chi la guarda, si completa: diventa un’esperienza condivisa.»

 

La riflessione filosofica è parte integrante del suo processo creativo. Ogni opera nasce come una parabola visiva, un pensiero incarnato nel colore.
Alle nuove generazioni, Cécile lascia un invito: “Imparare a osservare, ascoltare, respirare. Fermare il tempo per renderlo più denso. Il presente è un dono — in francese, ‘présent’ significa anche regalo. L’arte è questo: un modo per abitare pienamente il tempo, per far crescere l’essenziale dentro di sé.”

 

Cècile si è raccontata in questa intensa intervista con autenticità, condividendo il suo mondo

1. Il tuo percorso artistico attraversa teatro, cinema, insegnamento e pittura. Cosa ti ha riportata definitivamente al disegno e alla pittura come linguaggi
principali?
L'icona. Più precisamente lo sguardo dell'icona, che cambia anche lo sguardo che noi possiamo posare su di essa. Sono ormai poco più di undici anni che scrivo icone.
Nell'agosto 2014 mi sono iscritta a un corso di iconografia nel Vercors e da allora partecipo ogni anno a questo ritiro della Dormizione di Maria all'Atelier St Jean
Damascène. Nell'icona ho sperimentato la Presenza, il soffio interiore che si posa e accarezza la tavola quando la Presenza si rivela e sale alla luce. È un'esperienza mistica, una liturgia incantatrice, un Kyrie Eleïson. Ho ritrovato un po' di questo anche nelle mie letture di François Cheng, un poeta francese contemporaneo di origine cinese, che amo molto. I suoi scritti mi hanno portato a riflettere sull'opposizione che si crea tra Oriente e Occidente, soprattutto a livello di rappresentazione. La prospettiva invertita dell'icona si ricollega allo spirito del Sumi-e, quella “pittura a inchiostro nero” giapponese originaria della Cina che traduce un sentimento interiore più che l'osservazione di una realtà esterna.


2. Hai parlato dell’“inconscio collettivo delle fiabe” come fonte di ispirazione. Cosa rappresentano per te le fiabe nel mondo contemporaneo?
Una chiave. Rappresentano una chiave di interpretazione simbolica e quasi universale sul funzionamento dell'essere umano, proprio come il mito, che interpreta le
aspirazioni e le ricerche dell'umanità. Le fiabe sono molto più che semplici storie raccontate ai bambini che hanno paura del buio la sera prima di andare a dormire.
Sono la nostra memoria collettiva, anche se a prima vista possono sembrare aneddotiche. Al loro interno sono racchiuse tutte le nostre angosce, i nostri desideri e
le nostre aspirazioni segrete, le nostre speranze. È un modo indiretto per ricevere delle risposte, anche se in quel momento non ne siamo consapevoli. È la piccola storia che illustra e rende comprensibile la questione sollevata. È uno schema, un'armatura su cui si basa ogni leggenda personale. Infine, è una sorta di catarsi come l'ha descritta Aristotele.


3. Nelle tue opere interroghi la presenza e la realtà. Credi che l’arte possa rivelare verità che la realtà visibile non mostra?
Certo. L'arte fa parte della nostra essenza di esseri umani, della nostra identità. Ci svela intimamente, nella Verità. L'arte è intrinsecamente legata a quella parte di divinità che costituisce lo spirito. È una sublimazione della realtà. Nell'arte si esprime l'anima del suo autore, quella parte immortale che chiede solo di vivere, di trovare un'eco nella realtà visibile.
E qui bisogna cominciare con il definire cosa sono la Verità e la Realtà in filosofia, perché questi due concetti non si collocano sullo stesso piano, anche se in alcuni casi coincidono. La Verità appartiene al mondo delle idee, ci ha insegnato Platone. La verità è assoluta e quindi indiscutibile, ce n'è solo una. Quando entra nel regno della Realtà, cioè nella fenomenologia, diventa relativa a ciascuno, perché parziale e caratteristica.
«A ciascuno la sua verità» è talvolta la frase che conclude il dibattito. Ciò corrisponde al velo di Gaia: vediamo solo una piccola parte della Verità in base a ciò che i nostri sensi ci rivelano nella realtà. La Realtà non è mai percepita nella sua interezza, ma dipende dalla percezione soggettiva di ciascuno. La Verità che l'Arte svela è dell'ordine dell'essenza delle cose, della loro universalità, che non appare visivamente nella realtà, poiché non fa parte delle caratteristiche delle cose, ma piuttosto del loro stesso essere. Come svelare allora qualcosa di essenziale se non attraverso l'aneddoto? È il principio della rappresentazione, dell'interpretazione di ciascuno. Questa interpretazione non è quindi visibile a prima vista nella realtà, che verrà quindi modellata soggettivamente. Ciò che l'arte mostrerà è il cuore stesso delle cose, che non è visibile ai sensi, ma che si intuisce. Il sublime nell'arte è l'ineffabile, è ciò che attirerà l'attenzione, affascinerà lo sguardo attraverso l'immagine proposta.


4. La memoria è al centro dei tuoi progetti più recenti, come Da Capo Salva (I) e (II). Cosa significa per te “salvare la memoria”?
Salvare la memoria significa innanzitutto salvare la propria identità. L'uomo deve salvare la propria natura, che è quella di pensare. Senza il pensiero, si lascia manipolare. È ciò che accade spesso quando scoppia una guerra. I popoli sconfitti ne pagano le conseguenze. La memoria permette di radicarsi in se stessi, di sapere da dove veniamo, di definirci. La memoria è anche ciò che crea il legame sociale.
Mantiene in vita, anche dopo la morte. Gli anziani vivono eternamente nel cuore dei vivi. La morte più dolorosa è quella dell'oblio. I malati di Alzheimer ne sono un ottimo esempio. Non ricordare è morire prima del tempo. È ciò che dilata la nostra percezione del tempo.


5. Hai esposto in contesti legati all’impegno civile e alla pace. In che modo l’arte può diventare una forma di resistenza o di guarigione collettiva?
L'arte non diventa, è una forma di resistenza alla realtà. Anche quando la copia: ne denuncia la menzogna. È sempre stata una forma di protesta, di provocazione, di espressione di sé, di uscita da sé. La sublimazione nell'arte permette questa catarsi. Un'opera mi ha particolarmente colpito durante una delle mie ultime mostre
collettive, intitolata “Potere”, in Ucraina a Leopoli, al Museo Nazionale Andrey Sheptysky. Quest'opera di Volodymyr Semkiv si intitolava Où est l'âme ? (Dov'è
l'anima?) e rappresentava un corpo stilizzato, scolpito nel tiglio, come la carcassa di un animale che esce da un macello. Ho trovato il simbolo molto forte. La testa, sede dello spirito, più ampiamente considerata come l'involucro temporaneo dell'anima, non era rappresentata. Quest'opera riecheggiava le mie due opere a inchiostro Da Capo salva I e II, che proprio alludevano al salvataggio di questa testa “Capo”, di questo pensiero che costituisce la nostra identità. Ciò evoca l'espressione usata durante la prima guerra mondiale per descrivere i soldati al fronte: erano “carne da cannone”. Non esistevano più come individui. L'arte, in questo contesto, permette di mantenere viva la parola, di esistere, di resistere allo sterminio di ogni potere dittatoriale.


6. I tuoi lavori uniscono simbolismo ed emozione. Come nascono i simboli nel tuo linguaggio pittorico?
Hanno origine nei miti e nelle leggende. Sono riferimenti culturali. I simboli sono legati a concetti universali, sono segni, tracce dell'invisibile. Un simbolo deve essere
compreso per essere efficace. È questo che lo rende un linguaggio, una sorta di codice da decifrare prima che riveli il suo mistero. Il simbolo aiuta ad ampliare la portata di ciò che difendo. Anche quando è abusato, stereotipato, il simbolo unisce, avvicina, incuriosisce. A volte richiede un'educazione. È ciò che attirerà l'attenzione di chi guarda: cercherà quindi di confermare nell'opera l'impressione che ha potuto provare.
È in questo senso che ho iniziato anche a introdurre gli haiku nell'immagine. Mi piace la definizione che viene data dell'origine mitica della scrittura cinese : essa non è solo un mezzo di comunicazione, ma anche un vero e proprio ponte tra l'uomo, il cosmo e le emozioni. Il tratto è quindi la fusione del pensiero con l'immagine e la spiritualità. La scrittura è qui ancora la traduzione di un soffio, della Vita, e questo si traduce nel tratto pieno e sottile.


7. Le tue opere sono state presentate in Europa, America Latina, Stati Uniti e India. Come cambia il dialogo con il pubblico nei diversi contesti culturali?
L'emozione è universale e diretta, sia che venga provata in Oriente che in Occidente.
L'espressione dell'anima trasmessa dallo sguardo trova sempre un ricettacolo, qualunque sia il suo linguaggio. Ho molto apprezzato l'accoglienza riservata alle mie
opere in India. Sono molto sensibili all'anima. E la mia serie di sei tele Sortie des ondes trattava proprio di questa ricerca di spiritualità presente nella fiaba della Sirenetta di Anderson. A Brema, è stata soprattutto la serie del Joueur de souffle ad attirare l'attenzione, come in Argentina a Buenos Aires. Il concetto poetico degli Haiku, tradotto nell'espressione dei ritratti, ha suscitato grande interesse. La cosa straordinaria dell'arte è che la barriera della lingua parlata svanisce di fronte alla
densità del linguaggio visivo. Non impedisce l'incontro. Le mie opere sono piuttosto frontali ; attraverso di esse lo spettatore si sente osservato. Ciò non lascia indifferenti. Lo sguardo finisce sempre per catturare l'attenzione, accompagnarla. E l'incontro avviene a metà strada tra l'opera e lo spettatore osservato, in quel vuoto mediano, come lo definisce François Cheng. La prospettiva dell'uno e dell'altro si incontra in questo centro.


8. Hai detto che la memoria “sviluppa l’immaginazione di chi osserva”. È questo il tuo modo di rendere lo spettatore parte dell’opera?
L'opera è un incontro tra il suo autore e lo spettatore, è un dialogo. La sua ricezione provoca una reazione, se tutto va bene. Positiva o negativa, ed è questo che stabilisce il contatto. Altrimenti, è un colpo a vuoto. La presenza dello sguardo incuriosisce, attrae. Senza arrivare alla pietrificazione provocata dallo sguardo nel mito di Medusa, affascina comunque e suscita, in chi lo cattura, un'eco dentro di sé. Fa emergere emozioni sepolte nella memoria. Ogni
spettatore può quindi interpretare l'opera in base a ciò che essa suscita in lui, in eco con la propria esperienza. Il momento condiviso si intensifica e si espande, arricchendosi della percezione dell'altro. Lo spettatore diventa quindi parte integrante dell'opera, sì. Perché essa si rivolge a lui attraverso la sua memoria. L'opera fa eco ai suoi sentimenti, quando gli parla e lui è sensibile ad essa. Il simbolo e l'Haiku ne intensificano l'ascolto; la poesia dà accesso a una realtà parallela comune. È ciò che Rainer Maria Rilke chiamava l'Aperto.


9. Il tuo percorso unisce arte e filosofia. Quanto conta per te la riflessione teorica nel processo creativo?
È fondamentale ed è alla base di tutti i miei progetti. Cerco sempre di rendere presente un'idea, un concetto attraverso una rappresentazione concreta, realistica, ma soprattutto poetica. Come nella creazione di un'allegoria, di una parabola.


10. Guardando al futuro, quale messaggio vorresti lasciare attraverso la tua arte alle nuove generazioni di artisti e osservatori?
Il mio messaggio sarebbe quello di trasmettere un certo modo di osservare, ascoltare, lasciarsi andare di fronte ai movimenti, alla velocità, ai rumori. Mi piacerebbe fermare il tempo per renderlo più denso, affinché l'attenzione si sviluppi e l'ascolto si instauri.
Questa contemplazione può anche durare indefinitamente, radicarsi nel presente, affinché diventi un regalo. È un gioco di parole in francese, poiché “présent” è
sinonimo di “regalo”. È anche un modo per andare all'essenziale e lasciare che questo essenziale cresca, si espanda in sé stessi, come fa l'haiku nella poesia. Prendersi il tempo per osservare, ascoltare, respirare, vivere e pensare. La poesia è un mondo a sé stante, un mondo sospeso.

Con la sua pittura meditativa e simbolica, Cécile Batillat ci invita a una forma di contemplazione attiva: guardare per comprendere, ascoltare per ricordare.
La sua opera è una soglia tra il visibile e l’invisibile, una testimonianza poetica sulla memoria, sulla verità e sulla presenza.
Nel suo sguardo, l’arte non è mai semplice rappresentazione: è un atto di resistenza, una preghiera silenziosa, un dono che continua a rinnovarsi ogni volta che qualcuno si ferma ad osservare.

 

Intervista tradotta in francese :

Entre mémoire, vérité et présence : le langage poétique et spirituel d’une artiste qui transforme la peinture en contemplation.

 

Artiste et philosophe de l’image, Cécile Batillat représente l’une des voix les plus intenses de l’art contemporain français. Formée à la Sorbonne en Arts Plastiques, Vidéo et Nouvelles Technologies, elle explore le théâtre, le cinéma et l’enseignement avant de revenir à la peinture et au dessin, ses langages les plus authentiques.

Ses œuvres allient réflexion philosophique et expérience mystique, rigueur de la pensée et légèreté du symbolisme. Cécile peint non pas pour représenter, mais pour révéler, pour mettre en lumière l’invisible, ce qui vibre entre mémoire et esprit.

 

Quand je lui demande ce qui l’a finalement ramenée à la peinture, Cécile répond par un seul mot : « l’icône ».

Depuis plus de onze ans, elle pratique l’iconographie comme un acte de méditation et de présence. « Dans l'icône, j'ai ressenti le souffle intérieur qui se pose sur le panneau et s'élève vers la lumière. C'est une liturgie enchanteresse, un Kyrie Eleïson », dit-il.

Dans ce geste rituel et sacré, il retrouve la même tension spirituelle qui anime ses œuvres : une rencontre entre l'Orient et l'Occident, entre la perspective de l'icône et la peinture japonaise Sumi-e, deux formes de représentation de l'intériorité plutôt que de la réalité extérieure.

 

L'univers de Cécile se nourrit de contes et de mythes, qu'elle considère comme des « clés symboliques universelles » pour comprendre la nature humaine.

« Les contes de fées », explique-t-elle, « ne sont pas des histoires pour enfants, mais notre mémoire collective. Ils résument angoisses, désirs, espoirs. Ce sont des modèles sur lesquels se fonde toute légende personnelle.»

Dans son œuvre, ces récits archaïques deviennent des architectures de sens : catharsis, révélation et miroir de l'âme.

 

Parlant de philosophie, Cécile distingue clairement la Vérité de la Réalité.

« L'art révèle la Vérité », dit-elle, « cette part essentielle et universelle que la réalité visible ne montre pas. Le sublime est l'ineffable : ce qui captive le regard et touche au cœur des choses.»

Dans ses œuvres, la peinture n'imite pas le monde, mais le transcende. Elle est une porte d'entrée vers l'indicible, une voie d'accès à l'essence de l'être.

 

L'univers de Cécile se nourrit de contes et de mythes, qu'elle considère comme des « clés symboliques universelles » pour comprendre la nature humaine.

« Les contes de fées », explique-t-elle, « ne sont pas des histoires pour enfants, mais notre mémoire collective. Ils résument angoisses, désirs, espoirs. Ce sont des modèles sur lesquels se fonde toute légende personnelle.»

Dans son œuvre, ces récits archaïques deviennent des architectures de sens : catharsis, révélation et miroir de l'âme.

 

Parlant de philosophie, Cécile distingue clairement la Vérité de la Réalité.

« L'art révèle la Vérité », dit-elle, « cette part essentielle et universelle que la réalité visible ne montre pas. Le sublime est l'ineffable : ce qui captive le regard et touche au cœur des choses.»

Dans ses œuvres, la peinture n'imite pas le monde, mais le transcende. Elle est une porte d'entrée vers l'indicible, une voie d'accès à l'essence de l'être.

 

Ayant exposé en Europe, aux États-Unis, en Amérique latine et en Inde, Cécile Batillat a trouvé un terrain d'entente dans toutes les cultures : l'émotion.

« L'émotion est universelle et directe, en Orient comme en Occident. L'expression de l'âme n'a pas de langage : le langage visuel la rend partagée.»

Ses œuvres, frontales et magnétiques, établissent un dialogue avec le spectateur, l'invitant à se reconnaître dans le regard de l'autre. « L'œuvre est une rencontre. Lorsqu'elle touche le spectateur, elle est achevée : elle devient une expérience partagée.»

 

La réflexion philosophique fait partie intégrante de son processus créatif. Chaque œuvre surgit comme une parabole visuelle, une pensée incarnée par la couleur.

Aux nouvelles générations, Cécile lance une invitation : « Apprenez à observer, à écouter, à respirer. Arrêtez le temps pour le densifier. Le présent est un don – en français, « présent » signifie aussi présent. L'art est cela : une manière d'habiter pleinement le temps, de laisser l'essentiel grandir en soi.»

 

Dans cet entretien intense, Cécile s'est livrée avec authenticité, partageant son univers.

 

  1. Votre parcours artistique mêle théâtre, cinéma, enseignement et peinture. Qu'est-ce qui vous a finalement ramené au dessin et à la peinture comme langages principaux ?

L'icône. Plus précisément, le regard de l'icône, qui modifie aussi le regard que l'on peut porter sur elle. J'écris des icônes depuis un peu plus de onze ans.

En août 2014, je me suis inscrit à un stage d'iconographie dans le Vercors et, depuis, je participe chaque année à cette retraite sur la Dormition de Marie à l'Atelier Saint-Jean-Damascène. Dans l'icône, j'ai fait l'expérience de la Présence, du souffle intérieur qui se pose et caresse le panneau lorsque la Présence se révèle et s'élève vers la lumière. C'est une expérience mystique, une liturgie enchanteresse, un Kyrie Eleïson. J'ai aussi retrouvé quelque chose de cela dans mes lectures de François Cheng, poète français contemporain d'origine chinoise, que j'aime profondément. Ses écrits m'ont amené à réfléchir à l'opposition entre Orient et Occident, notamment en termes de représentation. La perspective inversée de l'icône est liée à l'esprit du Sumi-e, cette « peinture à l'encre noire » japonaise originaire de Chine, qui traduit un sentiment intérieur plutôt que l'observation d'une réalité extérieure.

 

  1. Vous avez évoqué « l'inconscient collectif des contes de fées » comme source d'inspiration. Que représentent pour vous les contes de fées dans le monde contemporain ?

Une clé. Ils représentent une clé symbolique et quasi universelle pour comprendre le fonctionnement de l'être humain, tout comme le mythe, qui interprète les aspirations et les aspirations de l'humanité. Les contes de fées sont bien plus que de simples histoires racontées aux enfants qui ont peur du noir le soir avant de s'endormir.

Ils sont notre mémoire collective, même s'ils peuvent paraître anecdotiques à première vue. Ils contiennent toutes nos angoisses, nos désirs, nos aspirations secrètes, nos espoirs. C'est une manière indirecte de recevoir des réponses, même si nous n'en avons pas conscience sur le moment. C'est la petite histoire qui illustre et rend compréhensible la question posée. C'est un cadre, un cadre sur lequel repose toute légende personnelle. En fin de compte, c'est une sorte de catharsis, comme le décrivait Aristote.

 

  1. Dans vos œuvres, vous interrogez la présence et la réalité. Croyez-vous que l'art puisse révéler des vérités que la réalité visible ne révèle pas ?

Bien sûr. L'art fait partie de notre essence humaine, de notre identité. Il nous révèle intimement, dans la Vérité. L'art est intrinsèquement lié à cette part de divinité qui constitue l'esprit. C'est une sublimation de la réalité. L'âme de son auteur s'exprime dans l'art, cette part immortelle qui ne demande qu'à vivre, à trouver un écho dans la réalité visible.

Et ici, il faut commencer par définir ce que sont la Vérité et la Réalité en philosophie, car ces deux concepts ne se situent pas au même niveau, même s'ils coïncident parfois. La vérité appartient au monde des idées, nous a enseigné Platon. La vérité est absolue et donc indiscutable ; il n'y en a qu'une. Lorsqu'elle pénètre dans le domaine de la Réalité, c'est-à-dire de la phénoménologie, elle devient relative à chaque individu, car elle est partielle et spécifique. « À chacun sa vérité » est parfois la formule qui conclut le débat. Cela correspond au voile de Gaïa : nous ne percevons qu'une infime partie de la Vérité, basée sur ce que nos sens nous révèlent dans la réalité. La Réalité n'est jamais perçue dans son intégralité, mais dépend de la perception subjective de chaque individu. La Vérité que révèle l'Art est de l'ordre de l'essence des choses, de leur universalité, qui n'apparaît pas visuellement dans la réalité, car elle ne fait pas partie des caractéristiques des choses, mais de leur être même. Comment, alors, révéler l'essentiel sinon par l'anecdote ? C'est le principe de la représentation, de l'interprétation de chacun. Cette interprétation n'est donc pas visible au premier coup d'œil dans la réalité, mais

  1. La mémoire est au cœur de vos projets les plus récents, comme Da Capo Salva (I) et (II). Que signifie pour vous « sauver la mémoire » ?

Sauver la mémoire, c'est avant tout préserver son identité. L'être humain doit préserver sa nature profonde, qui est de penser. Sans pensée, il se laisse manipuler. C'est souvent ce qui se produit lorsqu'une guerre éclate. Les peuples vaincus en subissent les conséquences. La mémoire nous permet de nous enraciner, de savoir d'où nous venons, de nous définir. Elle est aussi ce qui crée du lien social.

Elle nous maintient en vie, même après la mort. Les personnes âgées vivent éternellement dans le cœur des vivants. La mort la plus douloureuse est celle de l'oubli. Les patients atteints de la maladie d'Alzheimer en sont un parfait exemple. Ne pas se souvenir, c'est mourir avant l'heure. C'est ce qui élargit notre perception du temps.

 

  1. Vous avez exposé dans des contextes liés à l'engagement civique et à la paix. Comment l'art peut-il devenir une forme de résistance ou de guérison collective ?

L'art ne devient pas ; c'est une forme de résistance à la réalité. Même lorsqu'il la copie : il dénonce ses mensonges. Elle a toujours été une forme de protestation, de provocation, d'expression personnelle et d'expression de soi. La sublimation en art permet cette catharsis. Une œuvre m'a particulièrement marqué lors de l'une de mes dernières expositions collectives, intitulée « Power », à Lviv, en Ukraine, au Musée national Andreï Chevysky. Cette œuvre de Volodymyr Semkiv, intitulée « Où est l'âme ?», représentait un corps stylisé, sculpté dans du tilleul, telle la carcasse d'un animal sortant d'un abattoir. J'ai trouvé le symbole très puissant. La tête, siège de l'esprit, plus largement considérée comme l'enveloppe temporaire de l'âme, n'y était pas représentée. Cette œuvre faisait écho à mes deux encres, « Da Capo Salva I » et « Da Capo Salva II », qui faisaient précisément allusion au sauvetage de cette tête, « Capo », de cette pensée qui constitue notre identité. Cela évoque l'expression utilisée pendant la Première Guerre mondiale pour décrire les soldats au front : ils étaient de la « chair à canon ». Ils n'existaient plus en tant qu'individus. L'art, dans ce contexte, nous permet de maintenir la parole vivante, d'exister, de résister à l'extermination de tout pouvoir dictatorial.

  1. Vos œuvres allient symbolisme et émotion. Comment les symboles émergent-ils dans votre langage pictural ?

Ils trouvent leur origine dans les mythes et les légendes. Ce sont des références culturelles. Les symboles sont liés à des concepts universels ; ce sont des signes, des traces de l’invisible. Un symbole doit être compris pour être efficace. C’est ce qui en fait un langage, une sorte de code à déchiffrer avant de révéler son mystère. Les symboles contribuent à élargir la portée de ce que je prône. Même galvaudés et stéréotypés, les symboles unissent, rassemblent et intriguent. Ils nécessitent parfois une pédagogie. Ce sont eux qui attireront l’attention du spectateur : il cherchera alors à confirmer dans l’œuvre l’impression qu’il a pu en avoir.

C’est dans ce sens que j’ai également commencé à introduire le haïku dans l’image. J’aime la définition donnée aux origines mythiques de l’écriture chinoise : elle n’est pas seulement un moyen de communication, mais aussi un véritable pont entre l’humanité, le cosmos et les émotions. Le trait est donc la fusion de la pensée avec l’image et la spiritualité. Ici, l'écriture est à nouveau la traduction d'un souffle, de la Vie, et cela se traduit par un trait plein et subtil.

 

  1. Vos œuvres ont été présentées en Europe, en Amérique latine, aux États-Unis et en Inde. Comment le dialogue avec le public évolue-t-il selon les contextes culturels ?

L'émotion est universelle et directe, qu'elle soit ressentie en Orient ou en Occident.

L'expression de l'âme transmise par le regard trouve toujours un réceptacle, quelle que soit sa langue. J'ai beaucoup apprécié l'accueil réservé à mes œuvres en Inde. Elles sont très sensibles à l'âme. Et ma série de six toiles, « Sortie des ondes », répondait précisément à cette quête de spiritualité présente dans le conte de la Petite Sirène d'Anderson. À Brême, c'est surtout la série « Joueur de souffle » qui a retenu l'attention, tout comme à Buenos Aires en Argentine. Le concept poétique du haïku, traduit en portraits, a suscité un vif intérêt. Ce qui est extraordinaire dans l'art, c'est que la barrière du langage parlé disparaît face à la densité du langage visuel. Cela n'empêche pas la rencontre. Mes œuvres sont plutôt frontales ; à travers elles, le spectateur se sent observé. Cela ne laisse pas indifférent. Le regard finit toujours par capter l'attention, l'accompagner. Et la rencontre se produit à mi-chemin entre l'œuvre et le spectateur observé, dans ce vide médian, comme le définit François Cheng. Leurs perspectives respectives se rencontrent en ce centre.

  1. Vous disiez que la mémoire « développe l'imagination du spectateur ». Est-ce votre façon de l'intégrer à l'œuvre ?

L'œuvre est une rencontre entre son auteur et le spectateur ; c'est un dialogue. Sa réception provoque une réaction, si tout se passe bien. Positive ou négative, et c'est ce qui établit le contact. Sinon, c'est un plan à blanc. La présence du regard intrigue et attire. Sans atteindre la pétrification provoquée par le regard dans le mythe de Méduse, elle fascine et trouve un écho chez le spectateur. Elle fait ressurgir des émotions enfouies dans la mémoire.

Chaque spectateur peut donc interpréter l'œuvre en fonction de ce qu'elle évoque en lui, en résonance avec sa propre expérience. Le moment partagé s'intensifie et s'amplifie, enrichi par la perception de l'autre. Le spectateur devient ainsi partie intégrante de l'œuvre, oui. Car elle lui parle à travers sa mémoire. L'œuvre fait écho à ses sentiments lorsqu'elle lui parle et qu'il y est sensible. Les symboles et les haïkus intensifient l'expérience d'écoute ; la poésie donne accès à une réalité parallèle partagée. C'est ce que Rainer Maria Rilke appelait l'Ouvert.

 

  1. Votre parcours allie art et philosophie. Quelle importance accordez-vous à la réflexion théorique dans votre processus créatif ?

Elle est fondamentale et constitue le fondement de tous mes projets. Je m'efforce toujours de transmettre une idée, un concept, par une représentation concrète, réaliste, mais surtout poétique. Comme dans la création d'une allégorie, d'une parabole.

 

  1. Tournés vers l'avenir, quel message souhaiteriez-vous transmettre à travers votre art aux nouvelles générations d'artistes et d'observateurs ?

Mon message serait de transmettre une certaine manière d'observer, d'écouter et de lâcher prise face au mouvement, à la vitesse et au bruit. J'aimerais arrêter le temps pour le densifier, afin que l'attention puisse se développer et que l'écoute s'installe.

Cette contemplation peut aussi durer indéfiniment, ancrée dans le présent, pour devenir un don. C'est un jeu de mots en français, puisque « présent » est synonyme de « don ». C'est aussi une façon d'aller à l'essentiel et de laisser cette essence grandir, s'épanouir en soi, comme le fait le haïku en poésie. Prendre le temps d'observer, d'écouter, de respirer, de vivre et de penser. La poésie est un monde en soi, un monde suspendu.

 

Avec sa peinture méditative et symbolique, Cécile Batillat nous invite à une contemplation active : regarder pour comprendre, écouter pour se souvenir.

Son œuvre est un seuil entre le visible et l’invisible, un témoignage poétique de la mémoire, de la vérité et de la présence.

Pour elle, l’art n’est jamais une simple représentation : c’est un acte de résistance, une prière silencieuse, un don qui se renouvelle à chaque fois que l’on s’arrête pour observer.

 

La Redazione 

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