Emanuela Zavattaro non arriva alla pittura per vocazione romantica, ma per necessità. Il suo ingresso nell’arte nasce da una frattura reale, fisica, che diventa presto una soglia simbolica: il punto in cui il corpo si ferma e la visione comincia. È in quello spazio sospeso – tra immobilità e urgenza espressiva – che il gesto pittorico si fa strumento di ricomposizione, atto vitale prima ancora che scelta estetica.
La sua ricerca si muove lungo territori profondamente umani: lo sguardo come racconto, il corpo come mappa emotiva, il confine come luogo attraversabile. Nei lavori di Zavattaro non c’è mai una figura statica, ma una tensione continua tra caduta e rialzarsi, tra perdita ed equilibrio ritrovato. La materia pittorica, costruita attraverso acrilico, collage di colore e hot glue, diventa superficie viva, tattile, attraversata da rilievi che guidano l’occhio e invitano il corpo a partecipare.
Il progetto (s)CONFINI sintetizza con forza questa visione: il limite non come barriera, ma come esperienza sensibile, come linea che può essere toccata e superata. Una poetica che, nel tempo, ha trovato risonanza in contesti internazionali, portando un percorso intimo e personale in città e culture diverse, senza mai perdere la propria autenticità.
Negli sviluppi più recenti, la sua indagine si apre a una dimensione etica e inclusiva, interrogando il senso stesso del vedere. Le opere pensate per persone ipovedenti e non vedenti trasformano la pittura in esperienza sensoriale totale, dove il tatto diventa linguaggio e l’arte si fa spazio condiviso.
Questa intervista nasce dall’ascolto di una voce che non cerca definizioni rigide, ma racconta un processo in continua evoluzione. Una storia che parte da una frattura e approda a una pratica artistica capace di tenere insieme fragilità e forza, corpo e materia, visione e contatto.
1. Il tuo percorso artistico nasce da un momento di fragilità personale. In che modo la pittura è diventata per te una forma di guarigione e rielaborazione?
La pittura è arrivata nella mia vita quando tutto sembrava essersi incrinato. Eppure, proprio dentro quella frattura si è aperto un orizzonte, una possibilità inattesa. Dipingere è stato, all’inizio, un gesto istintivo, quasi un appiglio: un modo per rimettere insieme i pezzi di me senza usare le parole, e forse persino un modo per esprimermi meglio delle parole stesse.
Poi è diventato un dialogo silenzioso con la mia fragilità, un modo per ascoltarla invece di combatterla. Ogni colore, ogni forma, mi restituisce qualcosa che credevo perduto. Così, tela dopo tela, la pittura è diventata la mia forma di guarigione più profonda. Non perché cancelli il dolore, ma perché gli dà una nuova forma attraverso cui trasformarsi. Gli dà un senso: dal nero emerge il colore, e in quella trasformazione nasce una forza che si rinnova, che evolve, che respira.
2. Ricordi quel primo giorno del 2014 in cui hai preso in mano i colori acrilici? Cosa hai provato e quando hai capito che la pittura sarebbe diventata qualcosa di più di un semplice passatempo?
Ricordo perfettamente quel momento. Avevo in mano un set di colori acrilici che avevo regalato a mia figlia e, quasi per gioco, ho deciso di dare colore a un tavolo brutto che avevamo in lavanderia. Non mi aspettavo nulla, e invece il risultato mi ha sorpresa: era piacevole, armonioso, vivo.
Da lì è successo tutto in pochissimo tempo. Mio marito mi ha regalato le prime tele e io ho iniziato a dipingere ciò che sentivo, senza filtri. All’inizio ero incredula: guardavo quelle opere e mi chiedevo se fossi stata davvero io a crearle. Non sapevo di avere quella capacità e avevo persino paura che potesse svanire da un momento all’altro.
Per quasi tre anni, ogni volta che finivo un quadro mi meravigliavo, e ogni volta temevo che quello successivo non sarei riuscita più a farlo. È stato un periodo di stupore continuo, in cui la pittura si rivelava a me mentre io cercavo di capire chi stavo diventando attraverso di lei.
3. I tuoi soggetti spesso sono sguardi e corpi. Cosa rappresentano per te e quale dialogo cerchi di instaurare con chi osserva?
Gli sguardi e i corpi, per me, sono mappe emotive. Sono conoscenza di me stessa e dell’altro. Non sono ciò che viene comunicato in superficie, ma ciò che viene colto davvero: quello che rimane, la verità che si avverte oltre le parole, al di là di qualunque cosa possa essere detta.
Rappresentano l’incontro e lo scontro: due interiorità che si avvicinano, si interrogano e si trasformano. Quando dipingo un volto o un corpo cerco la verità di un’emozione. Cerco di dare forma a qualcosa che nella realtà dura un attimo, ma che sulla tela diventa infinito.
Il dialogo che desidero creare con chi osserva è intimo ma anche aperto. Vorrei che ognuno potesse riconoscere in quel gesto una parte di sé: della propria storia, dei propri affetti, delle proprie fragilità e della propria luce. E vorrei che, nei miei dipinti, quella luce potesse amplificarsi, accendersi e far vibrare chi la percepisce e chi la sente.
4. La serie (s)CONFINI è centrale nella tua ricerca. Come nasce questa riflessione sul concetto di confine e cosa rappresenta oggi per te?
(s)CONFINI nasce dal mio desiderio di superare i limiti: quelli che ci autoimponiamo e quelli che il mondo ci costruisce intorno. Per molto tempo ho sentito di dover scegliere tra forza e fragilità, tra parola e silenzio, tra vedere e non vedere.
Ma questa serie è nata soprattutto grazie a un incontro. Lavoravo con un ragazzo cieco dalla nascita che un giorno mi disse che gli sarebbe piaciuto venire a vedere una mia mostra. Quelle parole hanno aperto una domanda e poi un percorso: come posso creare un’arte che non si limiti allo sguardo? Come posso far sì che chi non vede possa percepire l’opera?
Da lui è nata la scintilla di (s)CONFINI e, da allora, continuo a lavorare per renderla sempre più sensoriale, più accessibile, più aperta anche alle persone cieche o ipovedenti. È un cammino che mi sta trasformando e mi sta arricchendo, sia come artista che come persona.
Oggi (s)CONFINI è per me un manifesto di libertà e inclusione: un invito a vivere oltre le apparenze, oltre le barriere visibili e invisibili, oltre l’idea che esista un solo modo per percepire la bellezza.
5. L’equilibrio è un tema ricorrente nel tuo lavoro. In che modo la tua esperienza personale influenza questa ricerca continua tra stabilità e instabilità?
Ho sempre camminato tra opposti: luce e ombra, impulso e controllo, slancio e paura. L’equilibrio, per me, non è mai qualcosa di statico ma di dinamico: va continuamente rinegoziato, ridefinito, perché cambia con noi. Le mie opere raccontano questo movimento: linee che cedono e resistono, colori che si sfiorano e si respingono, forme che trovano un punto di quiete solo attraversando l’instabilità.
La mia esperienza personale mi ha insegnato che l’equilibrio vero nasce dall’accogliere il disequilibrio, dal riconoscerlo come parte del nostro modo di stare al mondo. Sulle tele cerco esattamente questo: un equilibrio dinamico, vivo, mai definitivo.
6. Utilizzi una tecnica materica che include collage di colore e hot glue. Come sei arrivata a questo linguaggio e che ruolo hanno le texture nell’espressività delle tue opere?
Sono arrivata a questo linguaggio grazie a un suggerimento prezioso. È stato Stefano, il ragazzo cieco con cui lavoravo, a ispirarmi a creare opere percepibili anche senza la vista. Da lì ho iniziato a sperimentare molti materiali: corde, spago, legno, paste materiche… fino a trovare una
combinazione mia, costruita passo dopo passo. Ho coinvolto anche diversi ragazzi, che toccavano le opere e mi aiutavano a capire se quelle texture fossero
realmente percepibili.
È un cammino lungo, e so che continuerà a evolversi.
Le mie opere vogliono essere sia di impatto visivo che tattile, e unire questi due mondi è un sentiero complesso, ma è la direzione in cui voglio andare.
7. Hai esposto in molte città del mondo. Qual è l’esperienza espositiva che ti ha segnato di più e perché?
Tra le tante città, due esperienze hanno lasciato un segno profondo.
La prima è Venezia: la considero un luogo unico, un concentrato di bellezza. Esporre lì mi ha fatto sentire minuscola e allo stesso tempo parte di quell’atmosfera sospesa, così intensa.
Ma, probabilmente, l’esperienza più incredibile è stata New York. Una scossa.
L’energia che si respira è potente, inclusiva, in continuo movimento. Esporre lì per me è stato pazzesco, e lo è ancora: alcune opere sono tuttora esposte in città e ci sono collaborazioni in corso che spero possano concretizzarsi.
8. Negli ultimi anni ti sei avvicinata all’accessibilità dell’arte. Cosa ti ha portata in questa direzione e come cambia il tuo modo di progettare un’opera?
Mi sono avvicinata sempre di più al tema dell’accessibilità perché ho una sensibilità particolare verso le fragilità. Deriva dalla mia storia personale e dal mio percorso in Scienze dell’Educazione, che mi ha portata a lavorare con tante persone fragili e a comprendere quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Queste esperienze hanno influenzato la mia visione e anche il mio modo di rappresentare i corpi: figure che cercano se stesse o che cercano un passaggio nell’altro.
Spesso nelle mie opere due figure distinte si fondono in un punto preciso, come a dire che ognuno resta se stesso, ma c’è un luogo in cui l’incontro diventa possibile e profondo.
Pensare a opere percepibili anche da chi non vede significa ampliare l’idea stessa di percezione: progettare per il tatto, per il ritmo dei materiali, per l’esperienza emotiva oltre quella visiva.
9. Che rapporto hai con le persone che scelgono di portare una tua opera nelle loro case?
I collezionisti si avvicinano alle mie opere e a me con una sensibilità che mi sorprende ogni volta, come se cogliessero qualcosa di intimo e lo trattassero con cura.
Ed è da lì che nasce un legame: delicato, umano, autentico.
Per me è un dono sapere che le mie opere vengono accolte non solo in un’altra casa, ma in un’altra vita.
Pensare che un giorno forse verranno tramandate ai loro figli e ai figli dei loro figli è un pensiero che mi emoziona
profondamente. Quando un’opera lascia il mio studio provo sempre un misto di felicità e malinconia: felice perché inizia il suo viaggio, e triste perché so che non la vedrò più. Con molti collezionisti, nel tempo, è nata anche un’amicizia: messaggi, racconti, pezzi di vita condivisi. È un grande onore per me.
Oggi le mie opere vivono sparse nel mondo: in Italia, in America, in Svizzera e in diversi Stati europei come la Francia, i Paesi Bassi, la Germania e la Spagna.
Sapere che abitano luoghi lontani e diversi, ognuno con la propria storia e la propria luce, è come vedere il mondo attraverso i miei quadri.
10. Guardando al futuro, quali nuove direzioni vorresti esplorare nella tua ricerca artistica?
Il futuro, per me, è qualcosa che si sta già muovendo.
Una direzione importante è portare la mia mostra multisensoriale in altre parti d’Italia: nella primavera del 2026 sarà in Friuli-Venezia Giulia, in collaborazione con enti che si occupano di cecità.
Sarà un passo fondamentale nel mio percorso di inclusione sensoriale.
L’altro grande progetto riguarda le collaborazioni con gallerie di New York, un orizzonte che si sta costruendo giorno dopo giorno, ricco di possibilità che spero trovino la loro realizzazione.
È un futuro che mi emoziona: unire l’arte, il mondo e le persone è il mio modo di camminare avanti.
A chiusura di questa conversazione, ciò che resta non è una risposta definitiva, ma una traiettoria aperta. Il percorso di Emanuela Zavattaro si conferma come un processo in divenire, in cui l’esperienza personale si trasforma in linguaggio condiviso e la fragilità diventa possibilità. La sua pittura non cerca di rassicurare né di spiegare, ma di accompagnare: invita a sostare nei punti di instabilità, a riconoscere il valore del limite, a considerare l’equilibrio non come uno stato da raggiungere, ma come un atto continuo.
Attraverso il corpo, la materia e il gesto, l’artista costruisce opere che non si limitano a essere guardate, ma chiedono di essere sentite. In questa apertura al tatto, all’inclusione, a una visione che va oltre l’occhio, il suo lavoro si carica di una responsabilità rara nel panorama contemporaneo: quella di rendere l’arte uno spazio realmente accessibile, umano, attraversabile.
Con Zavattaro, il confine non si chiude mai. Resta una soglia viva, un luogo di passaggio in cui la pittura diventa esperienza e l’esperienza, lentamente, prende forma.
La Redazione
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